Vincenzo Martines

La mia storia

Capitolo I

Dal 1945 al 1950

Sono venuto alla luce il 24 gennajo del 1945 all'Ospedale Civile della cittadina di Susak, una località che invano oggi si cercherebbe sulle carte geografiche perchè assorbita, dopo l'ultima Guerra mondiale, dalla città di Fiume da cui la divideva il fiume Eneo, allora confine di Stato tra il Regno d'Italia e quello di Jugoslavia. Sarebbe stato forse più naturale pensare ad una mia nascita a Catania, città di mio padre Leonardo o a Trieste dove nel 1915 era nata mia madre Lucilla, da piccola suddita di due imperatori Francesco Giuseppe e Carlo I d'Asburgo, ma alcune imprevedibili vicende hanno voluto diversamente ed è questo il motivo per cui ritengo utile raccontarle. Dopo aver conseguito nel 1940 la Laurea in Medicina e Chirurgia all'Università degli Studi di Catania mio padre aveva frequentato il corso di allievo Ufficiale di Complemento a Firenze, per poi, con i gradi da Sottotenente e con le mostrine amaranto sul bavero, essere destinato a Trieste come da suo desiderio. In quella città al Circolo Ufficiali aveva conosciuto una bella “mula” (così, come è noto, vengono chiamate le ragazze nella città dell' Alabarda) Lucilla Bisoffi, con cui si era fidanzato. Ma dense nubi si addensavano sui Balcani: il 6 aprile del 1941 le truppe italiane invadevano la Jugoslavia e fu una facile vittoria, la Croazia venne occupata in due settimane e costituita formalmente a Regno.

Stampa della città di Fiume (XVIII sec.).
A destra del fiume Eneo il luogo dove sorgerà più tardi la cittadina di Susak, dove nacqui il 24 gennaio 1945

Il territorio fiumano dopo gli Accordi di Roma del 1924: l'Italia e il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni sancirono consensualmente la dissoluzione e suddivisione dello Stato libero di Fiume, accordandosi per l'annessione all'Italia del centro storico della città e di un sottile tratto di costa ad unirla al territorio geografico italiano, mentre l'entroterra e la parte orientale della costa con il sobborgo di Susak alla Jugoslavia. (vedi Trattato di Roma)
La Jugoslavia dopo l'occupazione italiana e tedesca del 1941

Il sovrano designato era Aimone, un principe di Casa Savoia/Aosta, che avrebbe dovuto regnare con il nome di Tomislavo II, ma ebbe il buon senso di non occupare mai quel trono. Onde stabilizzare gli inquieti nuovi territori fu necessario inviare rinforzi alle truppe occupanti ed è in questo scenario che giunse l'ordine a mio padre di raggiungere la località di Rudopolje, un paese di poche case, nel sud della Croazia, vicino ai laghi di Plivice. Il viaggio durò quasi una settimana perchè non vi erano mezzi diretti e bisognava arrangiarsi aggregandosi a convogli che andavano in zone di operazioni diverse; nell'ultimo camion del Regio Esercito con cui avrebbe finalmente raggiunto la destinazione, mio padre ebbe il primo contatto, sia pure indiretto, con i partigiani; aveva notato che il parabrezza del veicolo era bucato in vari punti per cui aveva chiesto all'autista, un siciliano di nome Cardì, della loro origine, la risposta era stata: “Signor Tenente sono buchi da proiettile, e il soldato che sedeva al suo posto è stato colpito mortalmente il mese scorso”. Non era certamente un inizio incoraggiante.

A Rudopolje operava un battaglione che faceva parte della divisione "RE" con compiti prevalenti di difesa di impianti e vie di comunicazione stradali e ferroviarie. Gli venne assegnato un attendente di nome Cavaciocchi,fiorentino, e prese possesso dell'infermeria dove veniva coadiuvato dal caporale di sanità Billi e dall' infermiere Nesi.

Mio padre Leonardo, a destra, con il suo attendente Cavaciocchi

Non era infrequente che il medico seguisse le pattuglie che controllavano la linea ferrata oggetto di attenzione da parte dei partigiani di Tito che tentavano di sabotarla, ma in quella regione i rischi non mancavano bisognava guardarsi da tutte le parti.

C'erano i Cetnici partigiani simpatizzanti per il re Pietro (che si trovava in esilio in Inghilterra) il cui comandante era il generale Draza Mihajlovic, c'erano i soldati della milizia territoriale (domobranci, letteralmente: difensori della patria) e ovviamente le squadre degli ustascia di Ante Pavelic che collaboravano con i tedeschi.

Stemma dei Domobranci
Partigiani cetnici
Gli attacchi dei partigiani alla piccola guarnigione sia pure sporadici e a prudente distanza costringevano ad un'allerta continua,era tipico il rumore dei loro fucili, a due tempi: ta-pum. Lo stesso che tutti udirono il 25 dicembre del 1942 mentre gli Ufficiali erano a mensa, davanti ad una tavola imbandita, come può esserlo in tempo di guerra, ma in cui non mancava un pollo ben rosolato e un dolce preparato dal cuoco calabrese.

Il Comandate del battaglione il maggiore Marengo ordinò subito ad una pattuglia di uscire per individuare il nemico che nel frattempo si era fortunatamente dileguato. Per mio padre che era uscito con i nostri soldati e riponeva molta fiducia sulla visibilità del bracciale di Sanità, bianco con la croce rossa, fu il pranzo più amaro della sua vita.

Si avvicinava l'otto settembre del 1943 e quindi il giorno della dichiarazione dell'armistizio con gli Alleati che venne trasmesso via radio ed ascoltato anche in Croazia, la notizia provocò stupore disagio e incertezza e nel rapporto Ufficiali subito convocato da Marenco sentiti tutti i pareri venne data libertà di scelta tra il rimanere sul luogo e quello di raggiungere con ogni mezzo l'Italia. Per la cronaca un gruppo di CCNN dislocato non lontano dal battaglione decise di rimanere sul luogo a fianco dei tedeschi.

Così mio padre toltasi la divisa e distrutti i documenti militari decise per il rientro in Italia inoltrandosi per strade e boschi infestati dai partigiani che lo intercettarono dopo pochi giorni. Si limitarono a toglierli la pistola ("compagno questa serve a noi !") ma venne trattato bene anche perchè avevano estremo bisogno di medici.

Nei giorni passati con loro, la sera nei bivacchi e attorno ai fuochi i partigiani, aiutati dal vino,si esibivano in danze estenuanti e in canti inneggianti la vittoria vicina (... Maresciallo Tito ... Maresciallo Tito ... josceni e dosta, josceni e dosta ! ... non è ancora abbastanza ...) o strazianti canzoni di guerra come quella intitolata "Mladi kapetane" (una ragazza chiede ad un giovane capitano da dove venga e se conosce un soldato di nome Giovanni suo marito e il capitano le risponde: mia giovane vedova conoscevo tuo marito ma è morto in combattimento...non piangere però perchè la guerra è finita..!).

Il Maresciallo Tito (primo a destra)

Finalmente il 18 novembre giunsero nei pressi di Susak e mio padre a cui i partigiani prima di dileguarsi avevano indicato l'Ospedale civile, dove sarebbe rimasto fino al 10 dicembre di due anni dopo, si presentò al Direttore sanitario che lo accolse con cordialità e volle subito fargli conoscere i pochi medici presenti perchè in tanti erano sulle montagne dell' Istria con i partigiani. Gli chiesero delle sue esperienze e furono contenti di apprendere (la tubercolosi era frequente in quelle zone)che era stato interno in un reparto di tisiologia ed aveva eseguito spesso il pneumotorace terapeutico (la sua tesi di Laurea, relatore il prof: Luigi Condorelli, verteva proprio sul Pneumotorace terapeutico che consisteva nell'insufflazione di aria nella pleura del polmone malato che in tal modo compresso riduceva al minimo le normali escursioni,facilitando i processi di guarigione, una tecnica allora quasi sperimentale).

Susak, Ospedale civile. Mio padre visita un malato, Settembre 1944.
A destra, il ricettario che usava mio padre a quel tempo

Come ebbe a certificare il Direttore dell'Ospedale, mio padre divenne, di fatto, primario della nona Divisione interna, compreso il Padiglione per le malattie infettive e il reparto per la tubercolosi. Tra i malati c'erano diversi reparti tedeschi considerato che dopo l'armistizio dell'8 settembre era stata creata una “Zona di operazioni” (Adriatisches Kustenland ) comprendente le città di Lubiana, Trieste, Udine, Gorizia, Pola e Fiume che dipendeva dal Gauleiter della Carinzia, Friedrich Rainer, nominato Alto Commissario di questa nuova regione, e che finita la guerra sarà giudicato da un tribunale jugoslavo ed impiccato nel 1947.

Friedrich Rainer

Le poste, anche se a rilento e sottoposte a censura, funzionavano,così mia madre era al corrente della situazione in fondo favorevole che si era creata, e poiché aveva avuto un incarico di insegnamento in una scuola di Pirano sulla costa istriana era relativamente vicina a Susak; non venne così troppo complicato organizzare il sospirato matrimonio che fu celebrato a Trieste il 30 aprile del 1944, tra i testimoni un funzionario delle R. Poste nativo di Catania, il dottor Antonino Longo di cui parlerò in seguito.

Susak. Mio padre ed io. 30 agosto 1945.
Nove mesi dopo all'Ospedale di Susak nascevo io, alle ore 20, come si può leggere nella lettera che mio padre inviò ai genitori, rassicurandoli che il parto era andato bene e che al piccolo era stato dato il nome del nonno e cioè Vincenzo. In effetti (la lettera non lo diceva per non destare preoccupazioni) il parto era stato piuttosto lungo perchè complicato dalla presenza di un fibroma uterino,con cui avevo viaggiato per tutto il tempo della gravidanza, mentre il nome Vincenzo è riportato si sui documenti ufficiali, ma in famiglia sono sempre stato chiamato Vinko, semplice traduzione del nome in serbo-croato. Ma oltre al nome di Vincenzo, per sottolineare la mia nascita in Croazia, e dopo un breve sondaggio su quale fosse un nome tipico della zona mi venne dato quello di Zeliko,in italiano Desiderio. Pochi giorni dopo i miei genitori vollero offrire in Ospedale un piccolo rinfresco cui partecipò tutto il personale sanitario comprese le brave suore di San Vincenzo, e diversi amici; il battesimo invece venne officiato da padre Adamo Muchtin, parroco della Chiesa di S. Teresa del Bambin Gesù a Susak il 18 marzo del '45. Ma la situazione stava precipitando i tedeschi si ritiravano e i partigiani di Tito ormai circondavano le colline vicine a Susak e quindi a Fiume.

Il 26 aprile la suora del reparto,visibilmente preoccupata, bussò alla porta dello studio di mio padre dicendo: “Gospodin Doktor je patrola ! “ (Signor Dottore c'è la pattuglia !) si trattava di due soldati dell'esercito popolare jugoslavo ben riconoscibili per la stella rossa sul colbacco. Chiesero se c'erano ricoverati dei tedeschi in reparto. La risposta fu negativa (in realtà c'era un militare germanico in tisiologia) i due soldati fecero rapida una ricognizione tra i letti, ma trattandosi di malati infettivi si guardarono bene dal fermarsi troppo a lungo e lasciarono il nosocomio salutando con la formula che avrebbe connotato tutti gli atti del nuovo regime: “ Za Republika ! Za Tita ! “ La nuova amministrazione comunista rispettò l'assetto ospedaliero esistente e a mio padre, suo malgrado, venne dato uno stipendio ( “compagno chi lavora deve essere pagato !”) Ebbe inoltre l'incarico di recarsi una volta la settimana al Distretto militare di Fiume per le visite mediche al personale del nuovo esercito jugoslavo. Comandava questo Ente un Colonnello che era affiancato da un Commissario politico. Mio padre parlava discretamente il serbo-croato, ma forse non benissimo tanto che il Commissario una volta gli chiese: “Compagno ma tu di quale parte della Jugoslavia sei ?” e probabilmente rimase deluso dalla risposta: “sono catanese “.

Era forte ovviamente il desiderio di tornare in patria e l'ostacolo principale era rappresentato dalle carenze di organico in Ospedale poiché molti medici erano ancora trattenuti con le formazioni partigiane, ma si trattava solo di aspettarne il ritorno e così alcuni mesi dopo,espletate le gravose pratiche burocratiche giunse il sospirato permesso.

Permesso di rimpatrio rilasciato dalle autorità jugoslave.
Il saluto in Ospedale quel giorno del 10 dicembre fu commovente per tutti, il Direttore dottor Bagarcic gli consegnò un attestato del servizio prestato e papà lo pregò di tradurlo di suo pugno in italiano. Nonostante tutti fossero a conoscenza della situazione disastrosa in cui si trovava il nostro paese i miei genitori non avrebbero mai immaginato che il viaggio in treno sarebbe durato 15 giorni tra tante difficoltà e lunghissime soste. Io avevo mille pretese, ma forse tutti i bambini le hanno, la prima e frequentissima quella del latte che mio padre doveva procurasi e scaldare col vapore della locomotiva con la complicità del macchinista. Il giorno di Natale del 1945 giungemmo finalmente alla stazione di Catania e una carrozza ci portò velocemente in via Imbriani dove venimmo accolti festosamente a casa dei nonni. Ero diventato un regnicolo.

Attestato di servizio rilasciato dal direttore dell'ospedale civile di Susak
Del 1946 non ricordo nulla e solo quando fui in grado di capire e mi appassionai alla Storia venni a sapere del Referendum istituzionale. Il 2 giugno mio padre e la sua famiglia votarono per la repubblica, mentre mia madre per il Re, e tra le tante motivazioni citava anche la generosità silenziosa della Regina Elena verso tanti indigenti, una motivazione che mi ricorda quanto faceva dire Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo a Ciccio Tumeo: “i sussidi arrivavano!, votai no e mi fecero dire si”, la frase è riportata nel dialogo svoltosi con il principe don Fabrizio durante una battuta di caccia, e poichè i fatti si svolgevano nel 1860 si riferivano ovviamente al Plebiscito per l'annessione al Regno sardo e quindi ai supposti meriti dei Borboni.

“. Come mi sarebbe piaciuto partecipare a questo evento che coinvolse tutti gli italiani ( dovrei dire quasi tutti poiché furono esclusi dal voto gli abitanti della Venezia Giulia, della Dalmazia, dell'Alto Adige, i cittadini italiani residenti in Libia, gli epurati etc.). Non avrei certamente avuto le capacità di suggestione di Sergio Romano che riuscì a convincere la nonna monarchica a votare per la Repubblica come racconta nel suo bel libro “ I luoghi della Storia “ edito da Rizzoli. ma sarei stato lo stesso, ne sono certo, un ottimo combattente. In ogni caso feci anch'io il salto nel buio (che oggi invece vedo assai chiaro) e divenni così suddito del nuovo stato repubblicano.

Dovrete certamente riconoscere che i miei primi due anni di vita si svolsero in scenari assai turbolenti e contrastanti: i primi quattro mesi sotto le bandiere del Terzo Reich, altri otto contrassegnati dalla Stella rossa dei partigiani di Tito, quindi il tricolore con lo stemma sabaudo, per finire con quello senza stemmi della repubblica.

Per i miei genitori il 1947 fu comunque l'anno dell'assestamento: affittammo una casa in via Enna non lontana da quella dei nonni e mia madre ottenne l'insegnamento presso la Scuola elementare Biscari e per un certo tempo fu l'unico sostentamento della famiglia perchè mio padre frequentava la Clinica Medica dell'Università come assistente volontario, quindi non pagato,; dopo pochi mesi osò parlare del suo futuro al Maestro e senatore del Regno Luigi Condorelli che non gli diede certezze di carriera, così scelse di fare il medico di famiglia.

La casa di via Enna era piccola e non consentiva di avere uno studio né una sala d'aspetto per i clienti, bisognava quindi trovare una sistemazione più adeguata. Ci trasferimmo così in un appartamento al secondo piano di via Monserrato 94: un ampio ingresso,cinque vani, una grande terrazza,in parte coperta da una vetrata, che affacciava su un ampio e lussurreggiante giardino dall'aria quasi esotica per la presenza di due magnifici alberi di banane i cui frutti riuscivano in estate ad arrivare a maturazione!; completava il tutto una soffitta assai vasta anche se male illuminata da un piccolo e tondo lucernario che affacciava sulle scale.

Non era raro che il sabato o la domenica mio nonno Vincenzo mi accompagnasse alla Villa Bellini, anche allora molto curata: mi incuriosivano le evoluzioni dei cigni nella grande vasca all'ingresso del parco, i giardinieri che componevano quotidianamente con dei piccoli vasi di fiori interrati la data del giorno, un gigantesco baobab dalle mille radici, le voliere, ma sopratutto le automobiline e i tricicli parcheggiati ordinatamente in un grande piazzale la cui pendenza consentiva di raggiungere almeno all'andata velocità sbalorditive.

Con mio nonno Vincenzo a Villa Bellini (1946)
Un viale della Villa era dedicato agli uomini illustri che avevano onorato Catania e davanti ai loro busti dal volto severo ( tranne quelli senza testa mentre gli altri più fortunati erano senza il naso) il nonno mi raccontava la loro vita e i loro meriti. Conobbi così: Stesicoro, Caronda, Domenico Tempio, Giovanni Pacini, Mario Rapisardi, Nino Martoglio, Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto, Angelo Musco. La domenica pomeriggio la banda cittadina eseguiva brani musicali classici, con l'immancabile esecuzione finale di un'aria di Bellini, il cigno catanese. Il 1948 fu segnato dalla nascita di mio fratello Giulio, il 28 di ottobre (data fatidica e propizia durante il ventennio, ma in quegli anni da dimenticare) avvenuta, come era d'uso a quei tempi, a casa, lo guardai con curiosità e ritenni che col tempo avrebbe potuto essere un ottimo compagno di giochi; papà intanto aveva ottenuto un posto all' ENPAS (Ente Nazionale Previdenza ed Assistenza Statali) come revisore e ciò comportava una certa agiatezza economica, per cui decise di motorizzarsi ed iniziò con la vespa.

Crescevano anche i clienti, lo vedevo dalla sala d'aspetto sempre piena e dal numero delle visite a domicilio che faceva. Mi incuriosiva il fatto che ogni visita durasse almeno mezzora e mi chiedevo che cosa si dicessero e quali manovre semeiologiche facesse mio padre sul lettino in cui era sdraiato il paziente con i misteriosi apparecchi contenuti nell'armadio sanitario sistemato nello studio: apparecchio per la pressione, fonendoscopio, martelletto per i riflessi, etc.

Augusto Murri
Da medico poi ho capito l'importanza dell'attenzione al paziente, compresi i suoi aspetti psicologici, un approccio che al giorno d'oggi sembra relegato ai libri di Storia della Medicina ed ho apprezzato sempre di più quanto mio padre mi diceva quando ero studente di Medicina: “...il medico deve possedere innanzi tutto il metodo poi osservare e pensare con critica ma queste doti non sono sufficienti a raggiungere l'obiettivo e quindi una buona diagnosi e una terapia coerente, se non si penetra nell'animo del paziente creando un positivo collegamento con lui...”.

Aggiungeva poi che davanti al malato bisogna pensare prima alle cose più semplici e mi ricordava quanto disse una volta il grande clinico Augusto Murri ai suoi studenti, all'Università di Bologna: “...Mi preme che voi non pensiate ch'io presuma di dirvi cose ardue, meravigliose, originali. Spesso le cose più utili sono quelle che si trovano a ogni angolo di strada, ma non sempre sono quelle che gli uomini più apprezzano; talora anzi quelle che nessuno vuole...”.

Alla Plaia di Catania con mamma, papà e mio fratello Giulio (Agosto 1950)
D'estate a Catania il clima era particolarmente torrido,per cui la passavamo in una casa d'affitto a Nicolosi ( circa 600 mt sul livello del mare) l'ultimo paese prima di raggiungere la Casa Cantoniera e il rifugio Sapienza che segnavano il punto più alto ( 2.000 mt.) raggiungibile con la carrozzabile che portava sull'Etna o Mongibello, che i catanesi familiarmente ma con rispetto chiamano la Montagna.

Era un paesaggio suggestivo perchè fino a 1500 metri prevalevano le ginestre e i castagni ma al di sopra di questa quota il paesaggio cambiava decisamente e diveniva brullo e in buona parte coperto dalla lava. Erano quindi frequenti in quel periodo le gite sull'Etna che esercitava su di noi, come già detto, un fascino non indifferente. Una fotografia ritrae tutta la famiglia in Vespa su quelle strade: papà alla guida,io davanti, mamma sul sellino posteriore con in braccio Giulio, allora si poteva fare!

Così guardando le sterminate colate laviche del passato ci rendevamo conto della potenza del vulcano, compreso il lato temibile, considerato che la stessa Catania più volte era stata distrutta dalla lava.

Un'altra meta estiva era la Plaja, a sud della città, una lunga distesa di sabbia finissima dove io e Giulio, muniti di secchiello e paletta, ci divertivamo a costruire castelli e fossati. Iniziavamo ad avere il contatto col mare, con le prime lezioni di nuoto. Unico nostro nemico erano delle temibili meduse

Nell' ottobre di quell'anno arriva il gran giorno bisognava andare all 'asilo, il pianto è inevitabile ma sono in una ottima scuola l'Istituto Maria Ausiliatrice di via Caronda, che ricordo con molta nostalgia e che ho frequentato fino alla III elementare: l'ampio cortile, la statua di don Bosco e di Suor Maria Mazzarello, le aule con i neri banchi di legno e il calamaio di vetro, la chiesetta linda ed accogliente, la mia brava e paziente maestra Suor Giuseppina Dugo. L'anno successivo il 1950 per me fu un anno importante perchè mi consentì di scoprire ed utilizzare due importanti caratteristiche insite in diverso grado nella natura dell' uomo: la prima è l' abilità manuale, nel mio caso il materiale utilizzato fu la carta,la seconda squisitamente intellettiva il gusto della lettura.

Il primo incontro,quello con la carta, nasce dai fogli di propaganda dei medicinali che le Ditte farmaceutiche inviavano ai medici con la posta e che mio padre leggeva dopo le visite, reclame dai colori vivaci e con immagini accattivanti, lucide e non, spesse o impalpabili,ma con un destino in comune finivano tutte nel cestino di vimini che stava accanto alla scrivania. Esercitavano su di me un fascino irresistibile, così in modo furtivo presi così l'abitudine, non appena papà usciva dallo studio, di dirottarle nella mia cameretta. Lì con la complicità di un paio di forbici e con l'ausilio di una colla contenuta in un barattolino di latta di colore argento e dall'acuto odore di mandorle le trasformavo in navi, fortilizi, soldatini, carri armati etc.,e questo nuovo parco giochi mi consentiva nelle battaglie che facevo giornalmente, di distruggere materialmente gli avversari (e in modo minore le mie truppe) non confliggeva con i giocattoli che i miei genitori non mi facevano mancare nel giorno del compleanno,dell'onomastico e anche in quello dei morti il 2 novembre seguendo un'usanza tipicamente siciliana,quella di ricordare anche in questo modo i propri defunti,si associavano ai regali anche dolci tipici: la frutta di martorana e le cosiddette ossa di morto classici biscottini di pasta garofanata fatti di farina, zucchero, chiodi di garofano, cannella acqua e la chiara d'uovo.

Ma il regalo più importante che mi fece mia madre al compimento dei 5 anni fu l'Enciclopedia dei Ragazzi della Mondadori dodici volumi rilegati con una copertina rossa e i caratteri in oro. Anche se non sapevo leggere guardavo avidamente le figure e le illustrazioni che abbondavano nel testo; sono convinto che questo “incontro” facilitò ed accelerò il mio impegno ad accostarmi alla cultura. E a questo proposito il mio pensiero corre a Rita Levi Montalcini,che ho avuto modo di conoscere, ricordo bene che in una sua conferenza citò proprio l'Enciclopedia dei Ragazzi che aveva letto in gioventù e in un suo libro “L'elogio dell'imperfezione” sottolineava il positivo ruolo svolto da questa Enciclopedia nella sua formazione giovanile perchè diceva riusciva a presentare ai ragazzi argomenti anche difficili in modo semplice e comprensivo per tutti.

Leggi il Secondo Capitolo.