Studioso precocissimo: dopo aver pubblicato a quindici anni i primi saggi sui monumenti romani e medievali della natia Macerata, si era ben presto impadronito delle lingue e delle religioni asiatiche, cosicché a diciannove anni già aveva scritto saggi sulla filosofia cinese e le religioni dell’Iran antico. Ben presto affascinato dal pensiero indiano, e in particolare dalla religione buddhista, Tucci si avviò negli anni della sua formazione universitaria (1913-1919) ad una brillante carriera ben inserita nei tradizionali binari del mondo accademico d’inizio Novecento.
Ma, come talvolta accade, il fato riserva sorprese, che quella volta assunsero le austere sembianze del poeta indiano Rabindranath Tagore. Pochi mesi prima, durante una breve visita in Italia, il premio Nobel per la letteratura era stato avvicinato da rappresentanti del governo italiano, che vedevano in lui soprattutto una importante entratura nell’universo culturale e politico del nazionalismo indiano. Ed era a tutti evidente che le aspirazioni indipendentistiche dall’Inghilterra di quei movimenti rendevano la loro azione assai interessante per chi osservasse il mondo dai colli ritenuti fatali di Roma. Ne era seguito un accordo, in base al quale l’Italia donava volumi per la biblioteca del college Vishva-Bharati, fondato in Bengala da Tagore nel 1921, e vi inviava due docenti. Uno di loro era per l’appunto Tucci.
Come Tucci stesso ricorderà molti anni dopo, egli era giunto in India influenzato dalle idee sull’India di stampo romantico che aveva assorbito – come di regola per la sua generazione – dagli scritti di filosofi e filologi europei (tra cui Schopenhauer e Deussen), che rappresentavano l’India come quel paese fantastico dove ancora vivevano «i più affascinanti sogni del misticismo» (Nalesini in stampa). Tutti gli sforzi erano rivolti alla ricostruzione di una presunta purezza delle origini che col tempo si era degradata, e rischiava di andare completamente perduta. E in effetti gli scritti di Tucci sin dentro agli anni Venti sembrano seguire questa impronta. Ad esempio, un suo libro sul Buddhismo uscito nel 1926 è occupato per quasi la metà dal tentativo di ricostruire con metodo storico quella che doveva essere veramente stata la parola del Buddha storico. E solo due anni prima aveva denunciato la volgarità e la crudezza degli attuali riti e credenze di cinesi e tibetani, contro la purezza del Taosimo e del Buddhismo primitivi (Tucci 1924: 5). Il contatto diretto con la realtà indiana, in tutta la sua ampia gamma di manifestazioni, metterà subito a dura prova le idee preconcette del giovane orientalista italiano. Di fatto, l’immersione in quel nuovo mondo sarà per lui foriera di notevoli mutamenti, che si manifesteranno sia nel modo di osservare il mondo circostante, sia nell’indirizzamento e nel metodo dei propri studi.
Il cambiamento più evidente fu la necessità di trasformarsi da filologo da tavolino in studioso sul campo. A parte i brevi viaggi compiuti in varie parti dell’India al seguito di Tagore, che lascerà nel 1926 per l’università di Dhaka, sempre su indicazione del governo italiano, egli iniziò ad inoltrarsi nelle aspre valli himalayane nell’estate del 1928, quando organizzò un soggiorno di un paio di mesi nel Ladakh allo scopo di visitare, tra le altre località, la biblioteca del monastero di Lamayuru, ove poter cercare testi tibetani o sanscriti sul Buddhismo. Lo stesso farà l’anno seguente, quando, grazie anche alla sua capacità di parlare fluentemente in sanscrito, riuscì in un piccolo capolavoro diplomatico: prima ottenere dal maharaja del Nepal il permesso di visitare il suo paese, allora uno dei più restii ad accogliere forestieri, e poi a prolungare la permanenza sino a quattro mesi.
Furono certamente queste prime esperienze sul terreno a fargli comprendere come i testi di cui stava andando alla ricerca, per quanto importanti, offrivano informazioni parziali. Per comprendere gli eventi passati e collocarli nel loro giusto contesto era necessario ottenere di più, e l’unico modo per riuscirvi era di ampliare la ricerca a una gamma di fonti che solitamente i filologi di allora trascuravano. Nulla che potesse essere reperito all’interno delle biblioteche, per quanto fornite, bensì avventurandosi in luoghi ancora inesplorati e acquisendo una conoscenza ampia e diretta del territorio. Questa preoccupazione traspare chiaramente già nel programma del viaggio del 1930, che toccherà il Baltistan e nuovamente il Ladakh, ma che nelle idee di Tucci doveva estendersi a zone lontane dalle vie principali, anche se quella volta non sembra sia riuscito nell’intento. Sarà invece dal 1931, e per altre sette volte (1933, 1935, 1937, 1939, 1948, 1952 e 1954), che Tucci riuscirà ad organizzare spedizioni della durata di vari mesi nel Tibet centrale ed occidentale, nonché nel Nepal, interessandosi praticamente a qualunque manifestazione delle civiltà locali. E in questo egli dimostra di saper rompere con le vetuste tradizioni dei suoi colleghi, aprendosi ad argomenti e fonti che prima di lui nessuno aveva nemmeno preso in considerazione.
Un esempio – a mio avviso – pionieristico di questa sua capacità è lo studio sugli tsha tsha, ovvero quelle formelle di argilla cruda che riportano su un lato, impresse a stampo, immagini sacre e talvolta brevi iscrizioni, e che vengono comunemente utilizzate come offerte votive. Si tratta dunque di oggetti poveri, e facilmente deperibili, ma costantemente prodotti nell’arco di secoli e presenti in gran copia pressoché ovunque, che Tucci studiò sistematicamente per primo riuscendo ad estrarre informazioni inedite di carattere religioso, artistico e storico (Tucci 1932).
Nei suoi resoconti di viaggio egli parla, spesso purtroppo solo per accenni, delle sue ricerche sulle tradizioni popolari, sull’arte e l’archeologia, la linguistica, e quant’altro. E menziona naturalmente una quantità talmente impressionante di progetti che intende portare avanti, ma che nella maggior parte dei casi non si concluderanno perché avrebbero comportato una mole di lavoro insostenibile anche per un genio come Tucci. Accumulò comunque una impressionante montagna di informazioni che ancora oggi si stenta a riorganizzare, e di cui hanno beneficiato generazioni di studiosi. Valga un esempio per tutti. Parlando delle sue prime spedizioni nelle regioni himalayane di Rupshu e Lahaul e nel Tibet occidentale, egli accenna ad una raccolta di iscrizioni che aveva intrapreso per compilare un Corpus Inscriptiumun Tibeticarum; opera che non portò a termine e di cui non sembrava restare traccia fino a quando, grazie alla consultazione dell’archivio di uno dei suoi principali discepoli, Luciano Petech, sono stati trovati gli appunti e alcuni calchi delle iscrizioni che Tucci aveva raccolto appunto con l’intento di elaborare una ricognizione esaustiva dell’epigrafia tibetana, ma alla fine aveva passato al suo allievo affinché potesse completare i suoi studi storici (Nalesini 2016).
Ma non basta, perché era evidente anche a lui che non sarebbe mai stato in grado di acquisire tutto quello che avrebbe meritato di essere studiato e conservato. E invece sentiva premere l’urgenza di un intervento di portata molto più ampia di quel che egli avrebbe mai potuto fare da solo. In effetti, a leggere con attenzione i diari delle sue spedizioni, colpisce che la parola in cui più comunemente ci si imbatte è “rovine”. Le regioni che egli andava esplorando si erano infatti impoverite e spopolate negli ultimi secoli, e anche i monumenti più superbi dell’arte tibetana si stavano inesorabilmente sgretolando, abbandonati a sé stessi. Invano Tucci tentò più volte di sensibilizzare i governanti britannici dell’India, e loro tramite quelli tibetani, per far sì che si intervenisse a restaurare almeno i monasteri più importanti, e che si redigessero cataloghi dei luoghi di importanza storica e culturale, e delle biblioteche monastiche (Farrington 2002: 91, 93, 176–179). Fu tutto invano; per ragioni culturali e politiche, non meno che logistiche e finanziarie, le risposte furono sempre negative.
Tucci ebbe così l’idea di ricorrere alla fotografia; proprio lui che per sua stessa ammissione non riusciva a gestire alcun strumento meccanico, nemmeno l’apparecchio fotografico! Tuttavia, la sua analisi dell’utilità di questo strumento era lucidissima: «È inutile che io insista sulla importanza di questo materiale fotografico. L’incuria con cui sono tenuti molti dei sacrarî congiura insieme col tempo ad un sollecito deperimento di monumenti d’arte di inestimabile valore iconografico e storico. I tetti delle cappelle si sfasciano, l’acqua penetra, cancella le pitture o le deturpa in maniera irreparabile», concludendo «Non ho il più piccolo dubbio che fra qualche anno di molti templi e cappelle del Tibet occidentale e degli affreschi che li adornano resterà soltanto la documentazione fotografica da noi riportata» (Tucci 1935: 17). Nei primi viaggi aveva affidato questo compito alla sua seconda moglie, Giulia Nuvoloni; una discreta dilettante. Poi nel 1931 aveva fatto da solo, e osservando i risultati deve aver compreso che sarebbe stato meglio affidarsi ad altri. Fu un caso, una comune conoscenza, che mise sulla strada di Tucci il primo medico che lo avrebbe accompagnato in Tibet anche come fotografo, e di cui ancora oggi non possiamo che ammirare la straordinaria perizia nell’immortalare soggetti posti in luoghi oscuri o di difficile accesso. Era Eugenio Ghersi, per ironia della sorte un ufficiale medico della Regia Marina. Se l’idea di un marinaio in Tibet può far sorridere, è certamente sorprendente che egli non fu l’unico. Altri tre medici della Marina avrebbero accompagnato Tucci sul Tetto del mondo. Qui però mi fermo per passare la parola agli altri autori, che sapranno presentare in maniera più approfondita questi altri personaggi che hanno saputo sostenere ed affiancare l’opera di Giuseppe Tucci. A loro l’Italia, il Tibet e in definitiva la cultura mondiale deve molto.
Bibliografia
Bibliografia Farrington, A. J. (2002). «Prof Giuseppe Tucci», in British Intelligence on China in Tibet, 1903–1950. Formerly Classified and Confidential British Intelligence and Policy Files, CIT-5 Travellers and Entry Control, 1905–1950, ed. by A.J. Farrington. Leiden, IDC.
Nalesini, O. (2008), «Assembling loose pages, gathering fragments of the past: Giuseppe Tucci and his wanderings throughout Tibet and the Himalayas, 1926–1954», in F. Sferra, ed., Sanskrit Texts from Giuseppe Tucci’s Collection Part I, Roma, IsIAO, pp. 79-112.
— (2016), «The Personal Fonds of Luciano Petech and the Legacy of Giuseppe Tucci: the Case of the Corpus Inscriptionum Tibeticarum», in E. De Rossi Filibeck et al., eds, Studies in Honour of Luciano Petech. A Commemoration volume, 1914-2014, Pisa-Roma, Serra, pp. 17-26.
— (in stampa), «India in Mind, Tibet in Heart. The life journey of Giuseppe Tucci between intellect and dream», in T. Leucci, ed., L’Inde et l’Italie, rencontres intellectuelles, politiques et artistiques, Paris, EHESS.
Tucci, G. (1924), Apologia del taoismo, Roma, Formiggini (Apologie).
— (1926), Il Buddhismo, Foligno, Franco Campitelli.
— (1931), «La spedizione scientifica Tucci nell’India, nel Nepal e nel Tibet», L’Illustrazione italiana, 58 (40), pp. 506-10.
— (1932), Mc’od rten e ts’a ts’a nel Tibet indiano ed occidentale. Contributo allo studio dell’arte religiosa tibetana e del suo significato, Roma, Reale Accademia d’Italia.
— (1933), L’ultima mia spedizione sull’Imalaia. Nuova antologia: rivista de lettere, scienze ed arti, 365, pp. 245–248.
— (1934), L’Oriente nella cultura contemporanea, Roma, IsMEO.
— (1935), I templi del Tibet occidentale e il loro simbolismo artistico. Parte I Spiti e Kunavar. Roma, Reale Accademia d’Italia.
— (1963). La via dello Svat. Bari, Leonardo da Vinci.
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